CRONACA, LETTERARIA E NON, DELL'ANDAR PER MARE







giovedì 1 novembre 2018

Quelli della randa rollabile


"Mai stato su?". "No, signore". Eravamo al centro dell'imbarcazione, accanto all'albero maestro: lui mi indicò le sartie maggiori a sostegno dell'albero e mi disse chiaramente: "Su allora". La prima parte dell'arrampicata sembrò abbastanza semplice. Le sartie maggiori a sostegno dell'albero maestro erano costituite da pesanti cavi d'acciaio e le prime cinque griselle erano formate da aste di ferro fissate orizzontalmente a quattro sartie e usate come scaletta per fare salire più uomini contemporaneamente. Le griselle successive erano invece di legno, legate semplicemente alle due sartie centrali dal momento che, man mano che ci si avvicinava alla coffa, due metri e mezzo più in alto, lo spazio d'appoggio diveniva sempre più stretto e inserire un piede della mia grandezza nelle griselle diventava impresa alquanto ardua. Prima di arrivare a quel punto, tuttavia, giunsi al traverso del pennone di maestra. Pesava più di cinque tonnellate , rastremato verso i capi, distanti l'uno dall'altro vent'otto metri, e del diametro massimo di ottanta centimetri. Era attaccato all'albero maestro tramite un asse di ferro e una catena ausiliaria provvisoria che lo faceva oscillare orizzontalmente per mezzo di un paranco fissato alle sue estrimità: tale manovra prendeva il nome di "bracciare". Sopra di me si trovava la coffa, una specie di piattaforma semicircolare a grate connessa all'albero attraverso una barra metallica chiamata riggia, a cui erano legate le griselle di corda sulle quali bisognava arrampicarsi per raggiungere la coffa stessa. Si poteva passare anche per un foro, anziché esternamente, ma usarlo era considerato poco atletico; lo feci in una sola occasione, giusto per provare, ma mi ferii gravemente all'orecchio a causa di una sporgenza affilata, probabilmente utilizzata come deterrente. La prima volta feci fatica a raggiungere la coffa e ad un certo punto mi ritrovai immobile, con la schiena quasi parallela al ponte, mentre cercavo la grisella di corda con un piede. Alla fine la trovai e, quasi travagliato dall'ansia, riuscii ad issarmi sulla piattaforma, dove mi fermai per un attimo con il cuore che batteva all'impazzata. Prima di essere raggiunto dall'orribile voce stridula dell'ufficiale, che mi ordinava di salire ancora, vi fu un breve momento di sollievo, in cui notai che il fuso di maestra e l'albero di gabbia erano formati da un elemento unico e non due, come nella maggior parte dei velieri. La sezione successiva era composta da oltre quindici metri di griselle in corda legate alle sartie di gabbia che, poste in posizione quasi verticale, ondeggiavano violentemente mentre cercavo di arrampicarmi; molte di esse erano logore e, giunto all'altezza del pennone di gabbia, una mi si ruppe sotto i piedi. Ancora una volta la voce dal ponte risuonò: "Se vuoi continuare a vivere, aggrappati alle sartie e lascia stare quelle maledette griselle". Il pennone di bassa gabbia era agganciato ad un verricello di ferro, mentre quello di gabbia volante era fissato alla parte anteriore dell'albero e poteva così essere sollevato con una drizza per più di sette metri, fin quasi all'altezza delle crocette: le stesse crocette formavano una struttura aperta d'acciaio a supporto dell'albero di velaccio, a quasi quaranta metri d'altezza. Originariamente la vela di gabbia era unica, ma in seguito fu divisa in due per poter essere serrata più facilmente da un equipaggio sempre meno numeroso. In quel momento il pennone di gabbia volante era stato abbassato e si trovava proprio sopra quello di gabbia bassa. Quando raggiunsi le crocette, mi sembrarono alquanto precarie; due lunghi bracci si estendevano dal triangolo verso poppa, allungando le sartie fissate all'alberetto di controvelaccio, il più alto di tutti. Rimasi su quella struttura instabile con molta cautela, perché le mie suole scivolavano come l'olio. Sotto di me si estendevatutta Belfast e quando guardai in basso, in direzione del ponte, ora sottile come una riga, svenni quasi dalla paura. "Al pennone di controvelaccio", disse di nuovo quella voce perentoria, che si faceva a poco a poco più debole. Dovevo arrampicare per altri dodici metri di sartiole tremolanti, superare il pennone di velaccio e quello di controvelaccio, che come quello di gabbia volante poteva muoversi lungo uno snodo ben ingrassato. Le griselle si fecero sempre più strette, fino a scomparire appena al di sotto del pennone di controvelaccio. Ero esausto sia fisicamente sia emotivamente, ma l'ordine "sul pennone", non si fece attendere a lungo e mi spronò a continuare. Nel compiere tale manovra mi sporcai con il grasso dell'alberetto di controvelaccio lungo il quale si muoveva il pennone. Quest'ultimo aveva una lunghezza di quindici metri ed era più sottile degli altri, ma come tutti i pennoni era percorso da un'asta metallica, la fighiera, usata come guida per l'inferitura. Al di sotto del pennone correva un cavo metallico disteso per tutta la sua lunghezza e sorretto al centro, tra le due estremità e l'albero, da staffe verticali.  Tale fune veniva chiamata marciapiede ed era talmente lenta e scivolosa che, quando mi ci avventurai per la prima volta, rimasi saldamente aggrappato alla fighiera, ritrovandomi però con un piede da una parte e uno dall'altra, come un ballerino in spaccata. "Dritto all'estremità del pennone", disse il secondo ufficiale, con voce appena percettibile. in quell'attimo lo odiai. In qualche modo raggiunsi l'estremità del pennone. Cercai di riposarmi un po' appoggiandomi con lo stomaco e allungando le gambe all'indietro, ma ero troppo alto: in quel punto il marciapiede era vicinissimo al pennone, dove era ammanigliato al bracotto, e le mie ginocchia raggiungevano il punto in cui gli attrezzatori avevano presunto che fosse il mio stomaco, così che ebbi la sensazione di cadere a capofitto. Fortunatamente c'era un ammantiglio fissato alla varea, un paranco in filo metallico che sosteneva il pennone quando questo era abbassato; vi rimasi aggrappato, mentre mi guardavo intorno. "Bene", disse a gran voce il secondo ufficiale. "Torna all'albero". Obbedii prontamente, ma non fui molto felice quando mi chiese di andare alla formaggetta. Sapevo che, con le mie maledette scarpe, non sarei mai riuscito ad arrampicarmi a palo secco, quindi me le tolsi, insieme ai calzini, e infilai il tutto sotto la fighiera. Attorno alla sartia di controvelaccio erano legate due o tre griselle a dir poco logore; la prima si ruppe sotto il mio peso e dovetti usare la sola sartia per arrampicarmi fino alla puleggia della drizza di controvelaccio, usata per sollevare il pennone quando si spiegava la vela. Giunto là, solo due metri scarsi di albero secco mi separavano dalla formaggetta. Ormai avevo abbandonato qualsiasi preoccupazione. Raggiunsi l'albero di controvelaccio e mi arrampicai, mentre il vento mi spostava i capelli sul naso fin quasi a farmi starnutire. Allungai un braccio e afferrai il cappelletto rotondo di legno che si trovava a sessanta metri dalla chiglia; ovviamente non vi trovai alcun tipo di gratificazione o di premio per lo sforzo fatto. Ora quel maledetto sotto di me mi chiedeva di sedermi là sopra, ma io lo ignorai: non riuscii a pensare a nulla per cui fosse necessario farlo, quindi scivolai lungo la drizza e di nuovo sul pennone. "Ora puoi tornare giù", gridò l'ufficiale. Obbedii al suo ordine, ma fu ancora più inquietante dell'andata, perché dovetti scendere a piedi nudi e con le scarpe infilate sotto la camicia. "E' da incoscienti togliersi le scarpe", mi disse il secondo ufficiale una volta tornato sul ponte. "Adesso vedrai come si puliscono i gabinetti". Da quel giorno salii in coffa diverse centinaia di volte e senza badare alle condizioni atmosferiche. Però rabbrividisco ancora ogni volta che penso al primo giorno sul pennone di controvelaccio, con i tetti di York Dock sotto di me.

(Eric Newby, L'ultima regata del grano)

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