CRONACA, LETTERARIA E NON, DELL'ANDAR PER MARE







lunedì 18 luglio 2022

Il ritorno



Venne l’ora di salpare salimmo sulle navi e manovrammo verso meridione. Io per primo presi il mare. Infilai la mia nave nella strettoia fra l’Eubea e Andros. La velocità della corrente e del vento, già molto alta, aumentava nello stretto. Vedi ridurre la vela e mettere i remi in acqua per meglio governare. Il sole era già alto quando uscimmo di nuovo in mare aperto. Contai le mie navi, che procedevano in linea obliqua, come il mandriano conta le proprie giovenche quando le riporta nel recinto dopo il pascolo. C’erano tutte e questo era già motivo di sollievo. Feci di nuovo spiegare la vela e potei rendermi conto che ogni mia manovra veniva ripetuta uguale dal resto della flotta. Al tramonto vidi sulla mia destra il capo Sunion, ma non c’era modo di accostare per il pericolo degli scogli. Procedemmo verso meridione mentre il sole cominciava a scendere alla nostra destra verso  le creste dei monti e il vento rinforzava. Ci precipitammo alle manovre io, Euriloco, Perimede e Antifo il nocchiero; cercavamo di controllare la velocità delle nostre navi e la direzione, di calcolare il tempo che ci separava dall’arduo passaggio. Conveniva cercare un approdo prima che facesse buio e ripartire la mattina seguente o era meglio procedere spediti, anche di notte, per giungere a capo Malea e doppiarlo, lasciandoci alle spalle l’ostacolo una volte per tutte? Quest’ultimo mi parve il consiglio migliore. Avremmo navigato di notte con il braciere acceso, attenti alle stelle per non perdere la rotta e attenti al vento e alla sua direzione, la vela ridotta della metà. Gli altri, dietro, avrebbero  dovuto soltanto seguirci. Restava inteso che giunti in vista del capo avremmo disalberato e saremmo passati sotto il promontorio a forza di temi, risalendo dall’altra parte. Io già vedevo la manovra ben congegnata e mi pareva già di sentire il vento diminuire di velocità dopo il superamento del capo, la temperatura dell’aria farsi più mite, le onde più calme. La fermata successiva sarebbe stata Pilo, al sicuro nella baia riparata. Ma il vento, anziché calmarsi, aumentava di intensità. La vela si strappò e dovemmo sostituirla con grande sforzo. Per tutta la notte nessuni di noi dormì, restammo ai posti di manovra, a scrutare il cielo e sostenerci l’un l’altro sulle decisioni da prendere. Poi il cielo si coprì di nuvole alte e sottili, le stelle scomparvero, e da quel momento tenemmo lo sguardo fisso verso terra per vedere se apparisse qualche luce, un casolare, il bivacco di un pastore a rassicurarci che la costa era vicina e che non ci stavamo allontanando. Ma non vedemmo altro che buio, non udimmo altro che la voce del mare che non dorme mai. Spiavo allora a oriente, alla nostra sinistra, aspettando con angoscia crescente il primo barlume dell’alba. L’unica vista che mi confortava era a settentrione, dove i bracieri delle mie navi tracciavano nell’oscurità una rossa, obliqua linea di fuochi sull’acqua. Quando il cielo si rischiarò non aveva stelle e neppure luna, su di noi c’era soltanto una volta biancastra, il vento era più freddo e più forte: eravamo nel mezzo di una tempesta. Lo scoramento mi invase, gli dei mi respingevano ancora lontano dalla mia meta. Mi riscosse la voce di Antifo, colma di tristezza. “Wanax” disse, “dove siamo?” Da qualunque parte guardassimo non si vedeva nulla. La punta di capo Malea, se pure si ergeva ancora da qualche parte, doveva essere invisibile, lontana, perduta, chissà per quanto tempo! Avevo tanto sperato, tanto sognato l’isola mia, la casa, la famiglia, le avevo sentite così vicine che quasi avrei potuto toccarle. Mi venne in mente il giorno in cui mio padre mi aveva portato al largo, nel punto in cui tutte le terre sparivano, in cui solo la distesa del mare si estendeva in ogni direzione all’infinito e il sole martellava con i suoi raggi evocando plettri di luce che danzavano sull’acqua immota. Il mare, tutto attorno a noi, era vuoto.

(Valerio Massimo Manfredi, Il mio nome è Nessuno - Il ritorno)

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