CRONACA, LETTERARIA E NON, DELL'ANDAR PER MARE







giovedì 2 novembre 2017

Sailor Jack


Marinai si nasce, non si diventa. Per «marinaio» non intendo uno di quegli individui scialbi e insignificanti che si incontrano di questi tempi sul castello di prua delle navi, in mare aperto, ma intendo un uomo che prende possesso di quell’ammasso di legno, acciaio, cime e tela e lo trasporta a suo piacimento sulle superfici marine. E, checché ne dicano i capitani e sottufficiali delle grandi imbarcazioni, il diportista è un marinaio vero e proprio. Egli sa, deve sapere fare in modo che il vento porti la barca da un punto verso un altro. Non deve ignorare nulla delle maree, delle correnti, dei mulinelli, delle secche, delle boe nei canali, della segnaletica diurna e notturna. Deve continuamente sorvegliare i mutamenti del tempo e sviluppare una familiarità istintiva con il proprio mezzo. Deve farlo orzare al vento al momento giusto per favorire la virata e rilanciarlo sull’altro bordo senza fermarlo ne' farlo poggiare esageratamente. Un marinaio di lungo corso, oggi, non ha più bisogno di sapere tutte queste cose. Infatti le ignora tutte! Piazzatelo a bordo di una piccola imbarcazione e avrete modo di vedere quanto è sprovveduto. Starebbe più a suo agio sulla groppa di un cavallo! Non scorderò mai il mio stupore di ragazzo, la prima volta che incontrai una di queste curiose creature. Si trattava, nel caso specifico, di un marinaio inglese, un disertore. Avevo allora dodici anni e possedevo una scialuppa di 14 piedi, pontata e con la deriva, che avevo imparato a manovrare da solo. Guardavo questo tizio come fosse un dio, quando mi raccontava di paesi e personaggi esotici, di prodezze e tempeste di vento, roba da far drizzare i capelli in testa. Un giorno lo portai a fare un giro con me. Issai la vela, un po’ intimidito, da modesto marinaio amatoriale quale ero, e partimmo. Ero convinto di essermi portato dietro un uomo dall’occhio infallibile, che la sapeva più lunga sul mare di quanto avrei mai potuto sapere io. Dopo essermi applicato giusto un po’ alla manovra, gli lasciai barra e scotta. Mi sedetti sulla panca centrale della barca e rimasi lì, a bocca aperta, pronto a scoprire finalmente cosa fosse la vera navigazione. Ebbene, rimasi davvero di stucco quando mi accorsi di quanto valesse in realtà un «vero» uomo di mare a bordo d’una barchetta. Non era capace di regolare la vela nelle diverse andature, rischiammo di scuffiare diverse volte sopravento perché strambava come dio solo lo sa. Non sapeva a cosa servisse la deriva, e neppure che con i venti portanti è meglio sedersi al centro della barca e non sul bordo. Al ritorno, andò addirittura a sbattere sul molo facendo schiantare la prua e saltare la base dell’albero. Di conseguenza posso tranquillamente affermare che si può viaggiare una vita intera a bordo d’una nave senza sapere cosa significhi davvero navigare. Il richiamo del mare lo sentii all’età di dodici anni. A quindici, ero già capitano e proprietario di uno sloop pirata con il quale facevo incetta di ostriche. A sedici, viaggiavo a bordo di scafi attrezzati come golette, pescavo i salmoni con i pescatori greci del fiume di Sacramento e mi guadagnai persino un posto da marinaio nelle vedette della guardia costiera. Ero un buon marinaio, sebbene non mi fossi mai spinto oltre la baia di San Francisco o i fiumi che vi confluiscono, e non avessi ancora mai navigato in mare aperto. Poi, al compimento del diciassettesimo anno di età, mi imbarcai come marinaio a bordo di un tre alberi che salpava per un viaggio di sette mesi, andata e ritorno, sul Pacifico. Come non mancarono di farmi notare i miei compagni di viaggio, avevo avuto una bella faccia tosta. Non mi ci vollero più di un paio di minuti per imparare i nomi e le funzioni di certe cime che non conoscevo. Era semplice. Non facevo le cose alla cieca. Come diportista avevo imparato il perché e il percome delle manovre. Certo, dovetti imparare a governare con la bussola – per la qual cosa impiegai poco più di mezzo minuto – ma, andando di bolina, me la cavavo molto meglio della maggior parte dei miei compagni, perché in pratica navigavo così da sempre. Un quarto d’ora di apprendistato mi fu sufficiente per conoscere a memoria ogni traiettoria del vento. La morale della favola è che un vero marinaio si fa assai meglio le ossa con la navigazione da diporto. Quando un uomo ha frequentato la scuola del mare, non la lascia più. Il sale si impregna nel midollo osseo, nell’aria che respira e sentirà il richiamo del mare fino alla fine dei suoi giorni. Negli anni successivi ho scoperto sistemi più semplici per guadagnarmi da vivere. Ho abbandonato i castelli di prua, ma in mare ci torno sempre. Dal punto di vista del piacere, non c’è niente in comune tra una nave investita da una burrasca in mare aperto e uno yacht sorpreso dal maltempo in una baia protetta. Se si tratta di piacere e di eccitazione datemi lo yacht! Le cose accadono molto rapidamente e si è sempre in pochi alle manovre e sono manovre faticose, come ben sanno i diportisti! Sono stato sballottato da un tifone al largo del Giappone mentre facevo due turni di guardia, eppure ne sono uscito sicuramente meno sfinito di quando mi è capitato di dover combattere per due ore nel tentativo di ridurre la vela di prua di uno sloop di nove metri o di salpare due ancore da un ormeggio esposto a un furioso vento di sud-est. Si hanno tante sorprese e disavventure a bordo d’una piccola imbarcazione in tre giorni, quante se ne verificano su una nave oceanica in tutto un anno. Mi ricordo ancora della prima uscita fatta una volta con una barchetta di 30 piedi che avevo appena acquistato. Nel giro di soli sei giorni abbiamo subito due burrasche. E, tra una burrasca e l’altra, abbiamo avuto ogni volta un breve intervallo di calma piatta. Nel bel mezzo di una burrasca, abbiamo dovuto recuperare il battellino di salvataggio che se ne va alla deriva tra le onde pieno d’acqua, aveva rotto le cime con le quali lo rimorchiavamo. Prima di avere il tempo di realizzare che eravamo quasi morti dalla fatica, domammo la barca a prezzo di enormi sforzi. Che soddisfazione poi, nel ricordare quei momenti, con quale gioia li raccontate ai vostri amici skipper, membri della grande famiglia dei diportisti! Preferisco una barca a vela a una a motore, e sono convinto che la manovra di un veliero sia un’arte più raffinata, più difficile, più energica di quella di una barca a motore. Per la barca a vela ci vuole senz’altro più abilità, più intelligenza e molta più esperienza. E non c’è scuola migliore al mondo, per il giovane adolescente come per l’uomo maturo. Se il ragazzo è molto giovane, dategli un barchetta stabile. Il resto lo farà da solo. Inutile cercare di insegnargli qualcosa. Nel giro di poco sarà in grado di issare da solo una vela e di timonare. Poi inizierà a parlare di chiglie, di derive, e vorrà portarsi dietro una coperta per poter passare la notte a bordo. Non temete per lui. Senz’altro andrà incontro a rischi e disavventure. Ma ricordatevi che gli incidenti domestici non sono meno numerosi di quelli che si verificano sull’acqua. Uccidono più ragazzini le case surriscaldate che le barche, piccole o grandi che siano. D’altro canto, la navigazione ha contribuito a trasformare molti giovani in adulti solidi e autonomi più di quanto abbiano fatto il cricket o le lezioni di danza. E poi, se sei marinaio per un giorno, resti marinaio tutta la vita. Il sapore del sale non si dimentica più. Un marinaio non è mai troppo vecchio per non cedere alla tentazione di lanciarsi in una nuova avventura tra il vento e le onde.

(Jack London, Le gioie della navigazione con una piccola barca)

2 commenti:

  1. Si. Anche se in alcuni passaggi (dove dice di apprendere tutto in poco tempo...) il suo scritto mi pare un po' presuntuoso. :)

    RispondiElimina