CRONACA, LETTERARIA E NON, DELL'ANDAR PER MARE







venerdì 12 novembre 2021

Caccia senza quartiere


La vela nemica si vede meglio adesso che il sole è alto. È facile riconoscerla: è la velatura di un ketch che il vento, otto o dieci nodi di levante, permette di spiegare completamente, con mure a sinistra. Il mare forte e fastidioso del mattino si è calmato, e adesso possiamo vedere il suo scafo. Con il binocolo riesco a distinguere la bandiera: rossa, con la Union Jack in un angolo. Un inglese. Il cuore mi batte in fretta, perché appena abbiamo scoperto la vela all’alba, mentre scivolava silenziosamente nel “freu” dell’isola di Tabarca e noi aspettavamo in agguato, ancorati in tre braccia d’acqua, senza luci, con le vele serrate e mimetizzati contro la linea scura dell’isola, ho intuito che poteva essere inglese. Di questi tempi e nei giorni feriali, la maggior parte delle barche a vela che scendono a doppiare a sud la punta di Palos e navigano di notte senza ripararsi nei porti o ancorarsi nelle loro vicinanze sono straniere: olandesi, qualcuna francese. E inglesi. E il mio equipaggio ed io siamo sempre felici di dare la caccia agli inglesi. La nostra barca è veloce. Non è una nervosa imbarcazione da regata, non ha vele da competizione e lo spinnaker è proibito a bordo pena un giro di chiglia per chi lo nomini, perché è presuntuoso, scomodo e assassino. La nostra è una solida barca a vela da crociera d’altura con uno scafo dalle linee scattanti. Uno sloop armato a cutter con una trinchetta affilata come un coltello, e anziché una randa  avvolgibile ha una buona e classica vela grande con tre mani di terzaroli. Il mio equipaggio non porta calzature nautiche firmate, pantaloni al ginocchio o polo di marca con emblemi pubblicitari: sono due ragazze toste che indossano jeans scoloriti con il coltello in una tasca posteriore, hanno le nocche e i ginocchi pieni di cicatrici, e i bicipiti induriti dai winch. Tipe pericolose a terra, vendicative nelle cacce, crudeli e dure negli abbordaggi. Così, a poco a poco, un decimo di miglio dopo l’altro, diamo la caccia alla nostra preda. Il vento è un po’ rinfrescato, ha girato di quindici gradi verso prua, e adesso è un est-sudest di sei nodi e mezzo di solcometro. Faccio cazzare il genoa e mollare un po’ la scotta della randa, e guadagniamo un altro mezzo nodo. Adesso la barca naviga di bolina larga, con l’acqua che spumeggia lungo il fianco di dritta, e la preda è sempre più vicina. La tensione è palpabile da prua a poppa e una voce femminile dice: “È nostro”. Ma giuro che non è così facile. Il cane inglese stringe meglio di noi e guadagna il sopravvento, e la nostra rotta ci porta più vicino a terra di lui. Guardo preoccupato lo scandaglio, che misura una profondità sempre minore. Undici, nove, otto braccia. Adesso la preda è a un decimo di miglio a sinistra della nostra prua, davanti alla quale si fa sempre più grande la punta rossastra di Capo Roig. Temo di vedermi costretto a fare un bordo verso il largo e venire distanziato, o che l’inglese oltrepassi la punta e poi si metta sottovento, poggi passando davanti alla nostra prua, ci tiri una bordata con le batterie di dritta mentre stiamo per virare di prua, poi si rifugi impunemente nel porticciolo alle sue spalle. Ma all’improvviso il vento rinfresca, orziamo di cinque gradi ed evitiamo Capo Roig per un pelo, con lo scandaglio che indica una profondità di tre braccia ed il solcometro una velocità di sette nodi e mezzo, mentre filiamo di bolina sul mare, lasciandoci a poppa una scia bianca e dritta. Adesso sì che quello stronzo è nostro, mi dico. Lo abbiamo al traverso sinistro, a una mezza gomena di distanza, e va verso il nostro mascone. Aspetto un po’, poi ordino di preparare la batteria di dritta. Può cominciare a raccomandarsi a Nelson e ai suoi antenati. “Pronti a virare”, urlo mentre scollego il pilota automatico e prendo il timone. Grazie al mio equipaggio esperto di drizze, polveri e rum, il genoa cambia di mure e mi lancio dritto contro la preda, stringendo il vento. Sento quasi l’odore delle micce accese e lo vedo sempre più vicino ai miei portelli aperti. “Magic Carpet” leggo nel suo specchio di poppa. “London”. E a quel punto ammaino la mia falsa bandiera francese e isso quella spagnola - stratagemma legittimo - taglio la sua scia a poppa, stringendo bene e ad angolo retto, e quando è perpendicolare al mio traverso, a meno di quindici metri, rifilo all’inglese una bordata mentale che gli spazza la coperta, gli abbatte la mezzana tra schegge che volano e riduce a uno spezzatino i due rispettabili anziani dalla pelle rossiccia che mi guardano a bocca aperta dal pozzetto, lei con un libro in mano e lui intento a fumare pacificamente la pipa. Domandandosi, immagino, cosa diavolo stia facendo quel matto. Ignorano, poveri ingenui, che gli sto dando la caccia da sei ore e li ho appena spediti in fondo al mare.

(Arturo Perez-Reverte, Le barche si perdono a terra)

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